Proprio mentre Cristoforo Colombo giungeva in vista del nuovo mondo, la finanziatrice della sua lunga spedizione, la cattolicissima regina Isabella, mostrava grande intolleranza religiosa ordinando di battezzarsi subito a chi fosse ebreo tra i suoi sudditi spagnoli. Chi non acconsentiva doveva emigrare entro tre mesi. Chi avesse ospitato i "giudei" avrebbe rischiato la vita e la confisca dei beni. Giovanni II, re del Portogallo, speculò sulla loro condizione promettendo, in cambio di una tassa d'otto scudi a testa, il trasporto delle loro sostanze e l'asilo per 10 anni.
Dopo una lunga serie di furti, ricatti e vessazioni, gli ebrei spagnoli e portoghesi furono traditi dal successore di Giovanni, Emanuele, il quale intimò loro lo sfratto dal paese o la schiavitù perenne. In un
eccesso di paranoia religiosa, il re pensò anche di togliere alla popolazione non cattolica i figli minori di 14 anni per farli cristiani. Alcuni ebrei preferirono ucciderli, altri caddero schiavi, molti cercarono ospitalità nei paesi vicini, soprattutto in Italia. A Genova furono lasciati morire sui moli. A Venezia li arrestarono sulle navi noleggiate per fuggire, mandandoli poi a remare sui galeoni della Serenissima. Gli unici che li accolsero furono il papa e gli Estensi, signori di Modena e Ferrara.
Cominciò così il progressivo arrivo dal Portogallo e dalla Spagna, prima a Ferrara e poi a Modena, quando qui fu trasferita la capitale del ducato, di numerosi ebrei perseguitati. Si dice che alcuni di loro, giunti da Siviglia, avendolo trovato molto simile - sebbene più piccolo - alla torre della Giralda della città andalusa, diedero il nome di Ghirlandina al campanile svettante accanto allo splendido Duomo romanico di Modena. Il duca Ercole I, che li aveva aiutati per primo munendoli di salvacondotti e licenze per aprire uffici d'usura, lasciò in eredità al pronipote Alfonso qualche problema di soprannumero. Qualcosa di simile a ciò che succede oggi, con gli arrivi degli extracomunitari clandestini, sulle coste e alle frontiere dell'Europa. In una lettera del 1571, Gerolamo Montecuccoli comunica al duca che, continuando ad arrivare ebrei da Venezia, lo stesso Iseppe Levi, forse il capo della comunità israelitica modenese, non vuole accogliere più di 51 dei 300 che, imbarcatisi in Spagna per raggiungere Salonicco, erano stati bloccati dal Doge.
Molti di quelli arrivati all'inizio del secolo si erano già felicemente integrati. Per buona parte si trattava di mercanti e ricamatori. Non è da escludere che la loro presenza, organizzatasi nei secoli successivi in un'importante e numerosa comunità ebraica, abbia indirizzato in qualche modo la vocazione della gente modenese all'artigianato e al piccolo commercio che ne consegue.
Le abitudini gastronomiche degli ebrei, che hanno sempre funzionato da forte legame tra vita e religione, rappresentando i momenti più drammatici delle vicende del popolo d'Israele, non sono mai andate perse. Le regole che stanno alla base di questa cucina sono racchiuse nel "Casher", una serie di precise e severe prescrizioni cui attenersi scrupolosamente. Tra queste, figurano il divieto di cibarsi d'animali cosiddetti impuri, quelli che non hanno lo zoccolo e l'unghia tagliata e che non ruminano. Inoltre, è vietato mangiare uccelli rapaci e pesci senza pinne e senza squame, molluschi, rettili e crostacei. Insomma, è come dire: maiali, conigli, lepri, anguille, seppie, polipi, scampi, aragoste, granchi e ostriche. Non è finita: il latte e il formaggio non possono essere mescolati con la carne. Quest'ultima deve essere macellata in modo che l'animale muoia immediatamente e resti completamente dissanguato.
A Modena, il punto di riferimento della società e della cultura ebraiche è sempre stata la zona del ghetto, le strade attigue a piazza Mazzini, dove nel 1873 su progetto dell'architetto Ludovico Maglietta, con un costo di 130.000 lire raccolte con donazioni volontarie fra i membri della comunità, fu costruita la sinagoga. In provincia, la comunità più fiorente è stata a lungo quella di Finale Emilia, dove si trova ancora - seppure in disuso e in non buone condizioni - un "Horto degli hebrei" (cimitero pubblico), la cui costruzione risale al 1627. In questa cittadina della Bassa modenese, considerata la "Venezia degli Estensi" per il suo crocevia d'acque, il porto fluviale e l'importante cantiere navale del duca, le tradizioni ebraiche sono rimaste incise più profondamente che in altre zone. A Reggio Emilia, ad esempio, le chizze preparate da Federico Sacerdoti detto "Salamèin" nel suo laboratorio di via dell'Aquila (piccoli pezzi di gnocco fritto con l'"anima" di parmigiano-reggiano) sono entrate nelle abitudini alimentari dei reggiani. A Ferrara, dove non mancava mai sulle festose tavolate imbandite nel giardino dei Finzi-Contini, il salame d'oca è diventato una golosità per tutti, anche se molti, forse, non sanno che sulla tavola ebraica è arrivato come succedaneo lecito a quello di maiale.
Per ritrovare qualcuno di questi piatti bisognerebbe visitare le case delle antiche famiglie ebraiche modenesi, oppure cercare con pazienza in quella fetta di Bassa vicino al Po, dove la cultura israelitica, quindi anche la gastronomia, si è più a lungo e meglio amalgamata con quella locale. Non sarà difficile trovare presso qualche norcino, oltre al salame d'oca, prosciutto e ciccioli preparati con la grassa carne dell'uccello dalle zampe palmate. Col tacchino, un tempo, si preparava un ottimo polpettone arricchito da uova e vitello di cui qualche "rezdóra" conserva ancora la ricetta. Per "Pesach" (Pasqua) si facevano tagliatelle con farina d'azzime e uova cotte nel brodo. Per "Kippur" (è il giorno del perdono e si festeggia in autunno) si usava preparare un altro tipo di tagliatelle, sempre in brodo. Per "Purin" (festa delle Sorti) si mangiavano i cedrini, dolci fatti con una crema cotta di mandorle, zucchero e vaniglia che era spalmata su savoiardi bagnati d'alkermes.
Oggi, e senza motivi religiosi, a Finale Emilia, in provincia di Modena, si mangia soltanto la torta degli ebrei ("tibùia"), uno dei piatti più tipici della cucina locale. Si tratta, come racconta Piero Gigli, delizioso poeta ma anche esperto di storia patria della Bassa, di una sfogliata (impasto di farina, burro, strutto e formaggio) che, un tempo, la numerosa comunità israelitica vantava come specialità gastronomica insieme con il salame d'oca e gli zuccherini di "Pesach". A "venderla" ai cristiani fu Mandolino Rimini, figlio d'Aronne, che nel 1861, toccato dalla grazia di Dio, si fece battezzare coi nomi di Giuseppe, Maria e Alfonso, assumendo il cognome Alinovi. Gli israeliti finalesi non gli lesinarono il loro disprezzo e Mandolino, per vendicarsi, si mise a produrre la torta, aggiungendovi lo strutto - proibito agli ebrei, come tutto ciò che proviene dal maiale - in spregio agli ex correligionari. Il successo fu enorme e ancora oggi, a distanza di oltre un secolo, questa sfogliata che il formaggio filante trasforma in una dorata focaccia farcita è venduta per le strade di Finale Emilia, soprattutto d'inverno, in particolare il giorno dei morti.
Quando questa torta approdò nel paese che, più d'ogni altro, nelle terre dei duchi estensi, aveva ben accolto l'ampia comunità israelita giunta dalla penisola iberica? Forse al seguito di un pasticciere ebreo trasferitosi nella Bassa con i numerosi correligionari che avevano seguito il duca Cesare quando nel 1598, sotto il pressante stimolo del papa, aveva dovuto abbandonare Ferrara e trasferire la capitale a Modena.