Nel nome sapa è evidente una derivazione etimologica dal verbo latino sapĕre, aver sapore. Se ne trovano attestazioni in Plinio e Columella, mentre Ovidio invita a "ber dalla ciotola, come/da tazza, il bianco latte e la purpurea sapa". D'altronde vino e mosto cotti usavano moltissimo, sulle mense della Roma antica, seppure con tipologie diverse, secondo concentrazioni che erano chiamate "defrutum", "caroenum" o appunto sapa, come ci informa Varrone. A quei tempi, il gastronomo Apicio adoperava la sapa per le salse e nei suoi scritti cita anche un "sapuum" in dotazione ai legionari. Insomma, una sorta di "cotognata" ante litteram.
I contadini erano soliti utilizzare molto la saba, sia per i dolci casalinghi sia per dare più sapore a piatti poveri come la polenta o per intingervi altre pietanze come il gnocco fritto.
Sembra anche che il mosto cotto potesse servire per "governare vini deboli", ovvero dare sapore, zucchero, colore a vini privi di queste caratteristiche. E l'utilizzo finale determinava anche l'uva da utilizzare, bianca, più dolce, come condimento e insaporitore dei piatti, rossa più scura di colore (in particolare l'ancellotta) per dare colore al vino.
Squisita insieme ai formaggi stagionati e saporiti, la saba s'accompagna molto bene anche come condimento per l'insalata e come salsa per i gelati di crema e di panna. In estate, aggiunta all'acqua, diventa un'ottima bevanda dissetante. Un tempo, quando la neve fresca non era inquinata dall'atmosfera, costituiva un'inaspettata granatina per i più piccini.
La saba si usa anche per inzuppare i dolci detti sabadoni, gustose raviole di mele e pere cotogne. Ad Apino e Cingoli, nel Maceratese, è usata per creare dei dolci caratteristici del periodo invernale: i cavallucci, cornetti ripieni di sapa e frutta secca che si conservano per molto tempo. A Rosona, in provincia di Ancona, nella seconda metà di ottobre, si svolge una festa tutta dedicata alla sapa. In Sardegna la saba, ricavata dal mosto, oppure dai frutti del fico d'india (saba de figumorisca), o più raramente del corbezzolo, è frequentemente utilizzata nella preparazione dei dolci tipici. In Barbagia, la saba è ricavata dal mosto. A Oristano, invece, è maggiormente utilizzata la saba di fico d'india.
Ingredienti per 1.5 kg. di saba
8 kg. di uva dolce e matura
(meglio se bianca)
5 cm.
di corteccia di cannella
16 chiodi di garofano
2 limoni.
Lavate bene gli acini
dell'uva, staccateli uno a uno per controllarne lo stato, asciugateli e
metteteli in un'ampia pentola di coccio. Con un pestello (meglio con le mani)
ammostate l'uva il più possibile, passatela al setaccio per togliere buccia e
vinaccioli e rimettetela nella pentola. Coprite con un canovaccio e fate
riposare in un luogo fresco. Dopo 24 ore, unite al mosto la cannella, i chiodi
di garofano e la scorza dei limoni senza nulla del bianco interno e ponete sul
fuoco. Mescolando sempre, fate bollire piano piano per almeno 12 ore, sinchè il
mosto non si sia ritirato di circa 2/3. Schiumate per togliere eventuali
impurità e poi lasciate raffreddare. Togliete la cannella e il liquido ottenuto,
dolce, semiliquido e vischioso, versatelo in bottiglie che poi sigillerete
immergendo i colli in paraffina sciolta a caldo e conserverete in luogo fresco,
asciutto e bene aerato. C'è chi, durante la cottura, aggiunge anche 5-6 noci
con il guscio, in modo che battendo contro il fondo e le pareti del recipiente
evitano che lo sciroppo si attacchi. Un'avvertenza per controllare la perfetta
cottura della saba consiste nel versarne alcune gocce su una carta;
quando, mettendola in pendenza, le gocce vi restano attaccate, la saba è pronta.
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