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venerdì 31 gennaio 2014

BRINDISI CON IL "MIO" LAMBRUSCO


L'altro giorno, nello spazio del Circolo Creativo in via dello Zono 5, ho presentato il mio ultimo libro, "La rivincita del Lambrusco", pubblicato dalla casa editrice Wingsbert House. Accanto a me, gli amici Roberto Alperoli, assessore alla cultura del Comune di Modena, e il giornalista e scrittore Leo Turrini, i quali hanno stuzzicato la mia modenesità e il mio dichiarato viscerale amore per il vino rosso italiano più venduto al mondo.
Dopo aneddoti e curiosità, Leo mi ha "costretto" a dichiarare le mie preferenze per uno dei tanti ottimi Lambruschi presenti sul mercato. Ho cercato invano di dribblare la compromettente domanda, ma poi ho rivelato che, quando posso, scelgo la "Vigna del Cristo" di Cavicchioli, non senza apprezzare eccezionali aziende come Chiarli, Paltrinieri, Fiorini, Moretto, Manzini, Casolari e Bellei.
Si tratta di etichette che meritano tutte un voto altissimo e sulle quali non possono e non devono incidere le preferenze individuali. Il Lambrusco, ho spiegato, è come i tortellini. Ognuno ha gusti diversi, che non pretendono di creare classifiche. Sul tema, Leo non ha perso simpaticamente l'occasione di ricordare un episodio di tanti anni fa, quando lui era ancora un giovane e promettente cronista alle prime armi e, sentendolo ordinare un piatto di tortellini alla panna, io lo redarguii e gli spiegai che la nostra minestra principe deve essere assaggiata soltanto in brodo. Al termine della mia chiacchierata, che non ha evitato di criticare la scarsa propensione al marketing della nostra realtà economica, tutti i presenti hanno brindato alle fortune di Sorbara, Grasparossa e Salamino, ma anche del mio libro, con il vino messo gentilmente a disposizione dal Consorzio dei Lambruschi.


IL NOCINO TRADIZIONALE MODENESE



Questa è la nostra versione del nocino tradizionale modenese, il liquore ottenuto dai malli delle noci ancora verdi, raccolti la sera di San Giovanni. Ci siamo procurati le noci, abbiamo acquistato gli ingredienti e ci siamo messi al lavoro.



Ingredienti
30 noci
800 gr. di zucchero semolato
1 litro di alcol etilico a 95°



Preparazione

Lavate accuratamente le noci e asciugatele. Con l'aiuto di un coltello, tagliate le noci in quattro e mettetele in un vaso capiente. Una volta inserite tutte le noci, versate lo zucchero semolato, mescolate bene e chiudete il vaso. Se il vostro vaso ha la guarnizione di gomma, inserite un foglio di carta da forno tra il bordo dell'apertura e la guarnizione, in modo da impedire eventuali passaggi di aroma di gomma tra l'infuso e la guarnizione. A questo punto mettete il vaso al caldo in terrazzo, ma non direttamente al sole.
Passati tre giorni, e quando lo zucchero si sarà completamente sciolto, aggiungete l'alcol a 95°. Adesso l'infuso di noci, alcol e zucchero deve rimanere al caldo per almeno 60 giorni. Ogni tanto aprite il vaso, mescolate l'infuso in modo da ossigenarlo. Passati 60 giorni, controllate il colore del nocino, deve essere biondo-marrone. Trasferite il nocino in un luogo fresco, dove deve riposare fino a metà dicembre. Potete lasciare il nocino al fresco al massimo fino a metà gennaio, mai oltre, perchè il nocino potrebbe diventare troppo amaro.
Prima di Natale, filtrate il liquore con la carta da filtro. Ci vuole tanta pazienza, perchè è un'operazione lunga e i filtri vanno cambiati di frequente, in quanto tendono a intasarsi.
Imbottigliate il nocino in bottiglie scure e chiudetele con il tappo. Riponetele in cantina al fresco e a Natale dell'anno dopo sarà pronto per essere bevuto. Il nocino si conserva per tanti anni, chiuso nelle sue bottiglie.
Provate il nocino sul gelato alla crema, è spettacolare. Alcune piccole attenzioni per ottenere un buon prodotto. Le noci devono essere mature al punto giusto. Tagliandole devono essere morbide, con il gheriglio ancora gelatinoso e nessun accenno di guscio. Inoltre devono essere sane e senza ammaccature, raccolte lontane da fonti di inquinamento e strade trafficate. Il raccolto delle noci deve essere fatto a cavallo del giorno di San Giovanni, che è il 24 giugno. A seconda di come è la stagione, la raccolta delle noci può essere anticipata o posticipata. Lo zucchero deve essere semolato, bianco. Non utilizzate lo zucchero di canna, perchè il prodotto risulterebbe amaro. L'alcol deve essere di buona qualità, a 95°. Non lasciatevi ingannare da prodotti economici.

Micaela Ferri

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giovedì 30 gennaio 2014

MODI DI DIRE DIALETTALI MODENESI (5)

Eccoci qui con il nostro appuntamento settimanale. Buona lettura dialettale.



Andèr a óngia.
Andare a unghia. Si dice di chi è così povero da dover camminare scalzo, ma anche di chi, privo di un qualsiasi mezzo di trasporto, è costretto a muoversi a piedi.

Andèr cóme al treno dal cócc’.
Andare come il treno a spinta. L’espressione si riferisce a persone pigre, lente o malsicure nel camminare. Risale al 1883, quando a Modena venne inaugurata la linea ferroviaria per Sassuolo col famoso “treno dal cócc’”. Era un piccolo convoglio formato da alcune carrozze per passeggeri, precedute da un carro merci con la cabina per il manovratore. La spinta iniziale veniva data dai manovratori per mezzo di leve e stanghe. Al resto provvedevano il dislivello fra Sassuolo e Modena e il peso del treno. Il convoglio faceva due fermate, a Casinalbo e Formigine. Il buon esito dipendeva dall’abilità del conduttore, che non doveva frenare con troppo anticipo per non rendere necessario l’intervento di una locomotiva d’emergenza per continuare il tragitto. Come si può immaginare, questo treno fu motivo di parecchie battute umoristiche poichè spesso i passeggeri dovevano scendere a spingerlo. Famosa è rimasta l’avventura del 1913, quando il manovratore perse il controllo di ben undici vagoni, che arrivarono in stazione a Modena a gran velocità, arrestandosi con gran frastuono contro i respingenti di un binario morto. Solo per miracolo era stata evitata una sciagura: tutti i casellanti sul percorso erano stati avvisati telegraficamente e avevano potuto chiudere, appena in tempo, sbarre e cancelli dei passaggi a livello.

Fèr al fùreb per a-n paghèr al dazi.
Fare il furbo per non pagare il dazio. Far finta di non capire per non pagare il dovuto. Si racconta che, quando Modena aveva le mura e, accanto alle porte, le gabelle del dazio, un giorno i “padlòt”, le guardie daziarie (che venivano così chiamate o per le padellate di braci con cui d’inverno si difendevano dal freddo, o per la forma del copricapo che indossavano) fermarono un tale che presentava uno strano rigonfiamento sotto il tabarro. Gli chiesero ripetutamente che cosa portasse sotto il mantello, ma il tipo rispondeva sempre ripetendo le domande che gli rivolgevano i gabellieri. A un certo punto, uno di loro, irritato da quel comportamento, sbottò con queste parole: “Al scólta bèin, galantàm,  al gh daga mo’ un tài éd fèr al fùreb per a-n paghèr al dàzi”.

Fèls come él pistòl di ∫bérr.
Falso come le pistole degli sbirri. Si dice di chi è molto bugiardo. Il detto deriva dall’abitudine che avevano un tempo le guardie di polizia di portare nella fondina pistole di legno che servivano soltanto come deterrente contro i malviventi. Secondo un’altra interpretazione, le “pistole” false erano le monete d’oro e d’argento, coniate in epoca ducale,  che qualche furfante limava ai bordi per ricavarne polvere pregiata. Le pistole così limate, non avendo più il peso legale, divenivano di conseguenza “false”.

Andèr dèinter cun la patòuna.
Andare dentro con la scoppola, entrare a sbafo, passare senza pagare. Un tempo i ragazzi tentavano di entrare al cinema o allo stadio senza pagare. Approfittando della confusione all’ingresso, s’intruppavano in mezzo al pubblico pagante. Quando le maschere se ne accorgevano, rifilavano qualche leggera scoppola, ma, più spesso, con un sorriso accondiscendente, lasciavano entrare i giovani portoghesi. Il loro gesto, anzi, finiva per agevolare l’ingresso irregolare. Oggi l’espressione riguarda il portoghese istituzionale che gode di ingressi di favore al cinema, a teatro o allo stadio. Per estensione, anche chi ha superato un esame, o qualsiasi altra prova, a malapena, senza molto merito.

mercoledì 29 gennaio 2014

TORTELLINI, MEGLIO I BOLOGNESI?

L'altra sera, nella splendida cornice della Sala del Podestà di Palazzo Re Enzo a Bologna, ho partecipato come giurato alla sfida fra i tortellini di Bologna e di Modena. Si sono confrontati 5 chef di casa nostra e 5 di oltre Panaro. Ho dovuto insieme ai miei colleghi di giuria, fra cui nomi illustri come quelli di Stefano Bonilli e Massimo Montanari, la bellezza di 12 tortellini portati in tavola anonimi.
Un'impresa pazza. Al termine, ha prevalso Lucia Antonelli della Trattoria Il Cacciatore di Castiglione dei Pepoli. Il nostro Carlo Alberto Borsarini de La Lumira di Catelfranco, però, si è piazzato secondo. Come volevasi dimostrare: i bolognesi hanno giocato in casa e si sono avvalsi anche di una vasta giuria popolare che, riconoscendo i tortellini petroniani dal fin troppo evidente sapore di noce moscata, hanno premiato il loro gusto personale. Sbagliato, però, dare lo stesso valore al voto della giuria popolare e della giuria tecnica. Così come è sbagliato costringere chi deve giudicare ad assaggiare 12 portate di tortellini. Dopo 6-7, il palato non è più in grado di apprezzare le differenze. Il 2 giugno ci sarà il "ritorno" a Palazzo Ducale e i modenesi, che torneranno a essere guidati da Massimo Bottura, impossibilitato a essere presente l'altra sera dal grave lutto che lo aveva colpito il giorno prima, e da Luca Marchini dell'Erba del re, sapranno certamente prendersi la rivincita. La manifestazione, nonostante qualche piccola pecca organizzativa (inevitabile alla prima edizione), è stata molto bella. A Modena sapremo rispondere pan per focaccia. Intanto, complimenti a Borsarini (nella foto sotto con la signora e con il produttore di Lambrusco Alberto Fiorini) che ha difeso i colori di Modena, anche se, essendo castelfranchese, la sua cultura gastronomica è appena un po'... bolognese.
Gli altri chef che hanno difeso i colori gastronomici modenesi erano Giovanna Guidetti dell'Osteria La Fefa di Finale Emilia, Elvira Previdi della Trattoria Entrà di Massa Finalese (Finale Emilia), Gianluca Soncini della Trattoria del Campazzo (Nonantola) e Carlo Gozzi del Ristorante L'Incontro di Carpi. Si sono distinti anche Alice Colombari e Michele Testoni, che hanno tirato la sfoglia in pubblico e preparato ottimi tortellini particolarmente apprezzati dalla giuria.

martedì 28 gennaio 2014

SAVÓR, OTTIMO CON I BOLLITI


Il "savór" è un dolce povero, patrimonio un tempo delle famiglie contadine, una sorta di marmellata, diffusa soprattutto in Emilia Romagna. Chi segue ancora la tradizione lo prepara nel periodo  immediatamente successivo a quello della vendemmia, perchè è strettamente legato alla saba (vedi ricetta),  dalla quale dipende in tutto e per tutto. Questa salsa è ottima con tutti i tipi di bollito e con i salumi caldi. Nella ricetta del "savór", che si può ottenere anche senza la saba, partendo direttamente dal mosto (in questo caso, bisogna ammostare almeno il doppio d’uva), gli ingredienti mutano secondo le stagioni e i gusti.




Ingredienti per 1,5 kg.
500 gr. di saba
200 gr. di mele renette
200 gr. di pere
200 gr. di polpa di anguria
200 gr. di polpa di melone
200 gr. di polpa di zucca
50 gr. di gherigli di noce
1 arancia
1 limone


Mettete la saba in una grande pentola sul fuoco insieme con i gherigli di noce pestati, la frutta tagliata a fettine e la scorza senza nulla del bianco interno del limone e dell'arancia. Per facilitare l'operazione di distacco della parte bianca e della scorza, lasciate seccare le scorze e poi lasciatele a mollo in acqua tiepida. Fate bollire per circa 3 ore, schiumando di quando in quando e facendo attenzione che il "savór" non si attacchi. Quando il tutto si sarà ridotto di 1/4, spegnete il fuoco, lasciate raffreddare e poi versate lo sciroppo in vasi di vetro che chiuderete ermeticamente e conserverete in un luogo asciutto, buio e ben aerato. 

domenica 26 gennaio 2014

LA PIADINA PATRIMONIO DELL'UMANITÀ?


È proprio vero che i romagnoli, un po' come i francesi, vantano primati del tutto autoreferenziali. Ricordate? Dicono che quando uno ha sete, in Emilia si sente offrire dell'acqua mentre oltre il Rubicone gli offrono del vino, "e Sanzvéz", il Sangiovese. L'ultima è veramente tutta da ridire. L'assessore al turismo della Regione Emilia Romagna,  il riminese Maurizio Melucci, nei giorni scorsi, intervenendo al talk show televisivo "Klaus Condicio", condotto dal giornalista Klaus Davi su You Tube, ha detto che proporrà all'Unesco la candidatura della piadina a patrimonio dell'umanità. Una provocazione? Mica tanto, visto che l'assessore ha dichiarato che "la piadina, più che un cibo, è una vera categoria dello spirito". Per chiederne la protezione ufficiale, Melucci avrebbe già pronte le carte. Nulla da eccepire, se non che allora lo stesso riconoscimento noi modenesi lo vorremmo anche per il Lambrusco, il vino rosso italiano più venduto nel mondo, per l'aceto balsamico tradizionale, un impagabile elisir di cucina che migliora ogni cibo cui è accostato, e tutto ciò che deriva dalla macellazione del maiale, zampone in primis, un gioiello gastronomico "tutto modenese" che, stando alla leggenda, sarebbe stato "inventato" a Mirandola, in occasione dell'assedio che le truppe del papa guerriero Giulio II portarono alla città dei Pico. Si dice che gli abitanti, temendo di esser conquistati dai soldati papalini, uccisero tutti i maiali che si trovavano entro le mura di Mirandola. Successe poi che l'assedio fu forzato e che uno dei sudditi dei Pico, perchè la carne dei suini uccisi non diventasse immangiabile, pensò alla maniera migliore di conservate tutta quella grazia di Dio. Fu così che macinando la carne e insaporendola con delle spezie, riempirono la cotenna delle zampe anteriori dei maiali. Era il 1511, l'anno di nascita dello zampone. E noi modenesi dovremmo arrenderci davanti alla piadina romagnola? È certamente buona, ma perchè, le crescentine cotte nelle tigelle lo sono meno? Eppure non penseremmo mai di chiederne la protezione all'Unesco. Ci basta che l'agenzia dell'ONU abbia riconosciuto patrimio dell'umanità il Duomo e la Ghirlandina.

MODI DI DIRE DIALETTALI MODENESI (4)


San Gaetano

Ed ecco che continua il nostro viaggio attraverso i modi di dire in dialetto modenese.



A-m bala un òc’.
Mi balla un occhio. Il modo di dire si usa per affermare: “Sono incredulo”, “Diffido”. Ma c’è anche un’altra versione. Durante la campagna etiopica (1935/36), acquisì popolarità in Italia la parola “amba”, il nome con cui gli abissini chiamano i monti isolati con pareti a picco o dirupate e con sommità tabulare. A Bologna invalse la consuetudine di creare una terminologia scherzosa a proposito di questo vocabolo. Così, accanto ai nomi di monti e massicci realmente esistenti, come Amba Alagi e Amba Aradam, si idearono nomi di fantasia, appunto come “Amba Lunòc’”. L’espressione, diversamente frazionata, sarebbe entrata in uso anche a Modena col significato di cui si è detto.

Avér al pòrch a l’òra. 
Avere il maiale all’ombra (al coperto), nel porcile. L’espressione significa: “Essersi sistemato bene”. Un tempo, chi possedeva un maiale era fortunato perchè, almeno per un anno, aveva risolto il problema del cibo. Nel periodo invernale, infatti, l’uccisione del suino (“la pcarìa”) avrebbe riempito la dispensa di carne fresca e da trasformare in salumi. Oggi, il modo di dire ha assunto anche altri significati. Si può dire di chi sposa una persona facoltosa, o di chi vince una grossa somma e risolve i propri problemi economici per tutta la vita.

I dû d’agàst.  
I due d’agosto. È un’espressione scherzosamente triviale che si riferisce ai testicoli. Le interpretazioni sono almeno tre. La prima. Si dice che, anticamente, in quella data, considerata la festa degli uomini vigesse l’usanza di infiocchettarsi i genitali. Altri sostengono che l’espressione derivi dalla corruzione fonetica dell’ordine, dato dai comandanti della guarnigione francese di stanza a Modena, alla fine del 18° secolo, ai cittadini arruolati in fretta. Questi, non essendo militari di professione, non sapevano come comportarsi nell’indossare le aderenti braghe della divisa napoleonica e ognuno portava i testicoli, a destra o a sinistra, secondo la propia abitudine. Quando i soldati erano schierati, il loro aspetto offriva uno spettacolo non propriamente marziale. L’ordine, quindi, fu quello di portare sempre i “deux a gauche”, “i due a sinistra”. La frase (che in dialetto modenese suonava “I dû a gòsc’ “) venne rapidamente deformata in “I dû d’agàst”. E così è giunta fino a noi.

A-n basta gnanch l’óv éd l’Asceinsa.
Non basta neanche l’uovo dell’Ascensione. L’espressione è usata sia quando una malattia è giunta alla fase terminale, sia quando un affare sta per andare a rotoli. Il modo di dire deriva dalla credenza che le uova di gallina deposte il giorno dell’Ascensione possano essere conservate a lungo e siano la panacea per tutti i mali. Per questa ragione c’è ancora chi segue la tradizione di tenerle in serbo per usarle nei casi più gravi.

A-n còunta gnanch l’aqua éd San Ghitàn.
Non conta neanche l’acqua di San Gaetano. L’espressione significa: “Non c’è più rimedio”. Un tempo, il giorno di San Gaetano (7 agosto), i modenesi andavano nella chiesa di San Vincenzo a bere l’acqua, miracolosa per la gola, attinta da un pozzo che era stato incorporato alla chiesa durante la ricostruzione del 1617. La fonte era vicino all’altare di San Gaetano e dal santo aveva preso il nome.

GIOVEDÌ PRESENTO "LA RIVINCITA DEL LAMBRUSCO"



 
Giovedì 30 gennaio alle 18, in via dello Zono 5 a Modena, nella simpatica "bottega" del Consorzio Creativo, presenterò il mio ultimo libro, "La riscossa del Lambrusco", edito da Wingsbert House. Mi aiuteranno due cari amici, l'assessore alla cultura del Comune di Modena Roberto Alperoli e il giornalista e scrittore Leo Turrini. Si tratta di un'occasione per celebrare la città e l'apologia del vino rosso italiano più venduto al mondo, cui sono particolarmente legato.
Wingsbert House presenterà nuovamente l'originale formula del "wine book", una confezione che abbina il mio libro a un Sorbara Doc.
Al termine della presentazione, sarà offerto un aperitivo.


 

venerdì 24 gennaio 2014

LA CUCINA EBRAICA NELLA BASSA MODENESE

Proprio mentre Cristoforo Colombo giungeva in vista del nuovo mondo, la finanziatrice della sua lunga spedizione, la cattolicissima regina Isabella, mostrava grande intolleranza religiosa ordinando di battezzarsi subito a chi fosse ebreo tra i suoi sudditi spagnoli. Chi non acconsentiva doveva emigrare entro tre mesi. Chi avesse ospitato i "giudei" avrebbe rischiato la vita e la confisca dei beni. Giovanni II, re del Portogallo, speculò sulla loro condizione promettendo, in cambio di una tassa d'otto scudi a testa, il trasporto delle loro sostanze e l'asilo per 10 anni.
Dopo una lunga serie di furti, ricatti e vessazioni, gli ebrei spagnoli e portoghesi furono traditi dal successore di Giovanni, Emanuele, il quale intimò loro lo sfratto dal paese o la schiavitù perenne. In un
eccesso di paranoia religiosa, il re pensò anche di togliere alla popolazione non cattolica i figli minori di 14 anni per farli cristiani. Alcuni ebrei preferirono ucciderli, altri caddero schiavi, molti cercarono ospitalità nei paesi vicini, soprattutto in Italia. A Genova furono lasciati morire sui moli. A Venezia li arrestarono sulle navi noleggiate per fuggire, mandandoli poi a remare sui galeoni della Serenissima. Gli unici che li accolsero furono il papa e gli Estensi, signori di Modena e Ferrara.
Cominciò così il progressivo arrivo dal Portogallo e dalla Spagna, prima a Ferrara e poi a Modena, quando qui fu trasferita la capitale del ducato, di numerosi ebrei perseguitati. Si dice che alcuni di loro, giunti da Siviglia, avendolo trovato molto simile - sebbene più piccolo - alla torre della Giralda della città andalusa, diedero il nome di Ghirlandina al campanile svettante accanto allo splendido Duomo romanico di Modena. Il duca Ercole I, che li aveva aiutati per primo munendoli di salvacondotti e licenze per aprire uffici d'usura, lasciò in eredità al pronipote Alfonso qualche problema di soprannumero. Qualcosa di simile a ciò che succede oggi, con gli arrivi degli extracomunitari clandestini, sulle coste e alle frontiere dell'Europa. In una lettera del 1571, Gerolamo Montecuccoli comunica al duca che, continuando ad arrivare ebrei da Venezia, lo stesso Iseppe Levi, forse il capo della comunità israelitica modenese, non vuole accogliere più di 51 dei 300 che, imbarcatisi in Spagna per raggiungere Salonicco, erano stati bloccati dal Doge.
Molti di quelli arrivati all'inizio del secolo si erano già felicemente integrati. Per buona parte si trattava di mercanti e ricamatori. Non è da escludere che la loro presenza, organizzatasi nei secoli successivi in un'importante e numerosa comunità ebraica, abbia indirizzato in qualche modo la vocazione della gente modenese all'artigianato e al piccolo commercio che ne consegue.
Le abitudini gastronomiche degli ebrei, che hanno sempre funzionato da forte legame tra vita e religione, rappresentando i momenti più drammatici delle vicende del popolo d'Israele, non sono mai andate perse. Le regole che stanno alla base di questa cucina sono racchiuse nel "Casher", una serie di precise e severe prescrizioni cui attenersi scrupolosamente. Tra queste, figurano il divieto di cibarsi d'animali cosiddetti impuri, quelli che non hanno lo zoccolo e l'unghia tagliata e che non ruminano. Inoltre, è vietato mangiare uccelli rapaci e pesci senza pinne e senza squame, molluschi, rettili e crostacei. Insomma, è come dire: maiali, conigli, lepri, anguille, seppie, polipi, scampi, aragoste, granchi e ostriche. Non è finita: il latte e il formaggio non possono essere mescolati con la carne. Quest'ultima deve essere macellata in modo che l'animale muoia immediatamente e resti completamente dissanguato.
A Modena, il punto di riferimento della società e della cultura ebraiche è sempre stata la zona del ghetto, le strade attigue a piazza Mazzini, dove nel 1873 su progetto dell'architetto Ludovico Maglietta, con un costo di 130.000 lire raccolte con donazioni volontarie fra i membri della comunità, fu costruita la sinagoga. In provincia, la comunità più fiorente è stata a lungo quella di Finale Emilia, dove si trova ancora - seppure in disuso e in non buone condizioni - un "Horto degli hebrei" (cimitero pubblico), la cui costruzione risale al 1627. In questa cittadina della Bassa modenese, considerata la "Venezia degli Estensi" per il suo crocevia d'acque, il porto fluviale e l'importante cantiere navale del duca, le tradizioni ebraiche sono rimaste incise più profondamente che in altre zone. A Reggio Emilia, ad esempio, le chizze preparate da Federico Sacerdoti detto "Salamèin" nel suo laboratorio di via dell'Aquila (piccoli pezzi di gnocco fritto con l'"anima" di parmigiano-reggiano) sono entrate nelle abitudini alimentari dei reggiani. A Ferrara, dove non mancava mai sulle festose tavolate imbandite nel giardino dei Finzi-Contini, il salame d'oca è diventato una golosità per tutti, anche se molti, forse, non sanno che sulla tavola ebraica è arrivato come succedaneo lecito a quello di maiale.
Per ritrovare qualcuno di questi piatti bisognerebbe visitare le case delle antiche famiglie ebraiche modenesi, oppure cercare con pazienza in quella fetta di Bassa vicino al Po, dove la cultura israelitica, quindi anche la gastronomia, si è più a lungo e meglio amalgamata con quella locale. Non sarà difficile trovare presso qualche norcino, oltre al salame d'oca, prosciutto e ciccioli preparati con la grassa carne dell'uccello dalle zampe palmate. Col tacchino, un tempo, si preparava un ottimo polpettone arricchito da uova e vitello di cui qualche "rezdóra" conserva ancora la ricetta. Per "Pesach" (Pasqua) si facevano tagliatelle con farina d'azzime e uova cotte nel brodo. Per "Kippur" (è il giorno del perdono e si festeggia in autunno) si usava preparare un altro tipo di tagliatelle, sempre in brodo. Per "Purin" (festa delle Sorti) si mangiavano i cedrini, dolci fatti con una crema cotta di mandorle, zucchero e vaniglia che era spalmata su savoiardi bagnati d'alkermes.
Oggi, e senza motivi religiosi, a Finale Emilia, in provincia di Modena, si mangia soltanto la torta degli ebrei ("tibùia"), uno dei piatti più tipici della cucina locale. Si tratta, come racconta Piero Gigli, delizioso poeta ma anche esperto di storia patria della Bassa, di una sfogliata (impasto di farina, burro, strutto e formaggio) che, un tempo, la numerosa comunità israelitica vantava come specialità gastronomica insieme con il salame d'oca e gli zuccherini di "Pesach". A "venderla" ai cristiani fu Mandolino Rimini, figlio d'Aronne, che nel 1861, toccato dalla grazia di Dio, si fece battezzare coi nomi di Giuseppe, Maria e Alfonso, assumendo il cognome Alinovi. Gli israeliti finalesi non gli lesinarono il loro disprezzo e Mandolino, per vendicarsi, si mise a produrre la torta, aggiungendovi lo strutto - proibito agli ebrei, come tutto ciò che proviene dal maiale - in spregio agli ex correligionari. Il successo fu enorme e ancora oggi, a distanza di oltre un secolo, questa sfogliata che il formaggio filante trasforma in una dorata focaccia farcita è venduta per le strade di Finale Emilia, soprattutto d'inverno, in particolare il giorno dei morti.
Quando questa torta approdò nel paese che, più d'ogni altro, nelle terre dei duchi estensi, aveva ben accolto l'ampia comunità israelita giunta dalla penisola iberica? Forse al seguito di un pasticciere ebreo trasferitosi nella Bassa con i numerosi correligionari che avevano seguito il duca Cesare quando nel 1598, sotto il pressante stimolo del papa, aveva dovuto abbandonare Ferrara e trasferire la capitale a Modena.

SANDRO BELLEI VISTO DA MARIO CAVANI

Sandro Bellei visto dalla sensibile matita del bravo illustratore finalese Mario Cavani, il quale opera nell'ambito artistico modenese da quasi quarant'anni. Ha esposto in numerose e importanti mostre personali e collettive. Artista poliedrico e versatile, Mario Cavani si è dedicato alla pittura, all'illustrazione, al fumetto, alla grafica, alla progettazione e all'allestimento di scenografie teatrali. Numerose sue opere sono state utilizzate per illustrare le copertine di libri, riviste e periodici.

MODI DI DIRE DIALETTALI MODENESI (3)

Eccoci alla terza puntata del nostro viaggio attraverso i più curiosi modi di dire dialettali modenesi. Mi piacerebbe sapere se c'è qualcuno che se li ricorda e se qualche volta li usa ancora.



Al pèr al vèin éd Grimèli.
Sembra il vino di Grimelli. L’espressione era usata quando veniva servito dall’oste vino di scadente qualità. Geminiano Grimelli (1802-1878), scienziato carpigiano di un certo valore che fu anche Ministro della Pubblica Istruzione prima del  governo provvisorio, durante l’allontanamento del duca Francesco V e poi del governo Farini nel 1859, è rimasto famoso per i suoi studi di chimica. Quando un parassita devastò i vigneti del Modenese, studiò una “ricetta” per preparare, senza l’uva, una bevanda che assomigliasse al vino. La scoperta ebbe diffusione anche fuori della nostra provincia e fu citata persino da Antonio Fogazzaro in “Piccolo mondo antico”. Grimelli, antesignano dei moderni enotecnici, mise a disposizione dei modenesi una bevanda rossa che sapeva di vino ma che era fatta con acqua, zucchero, tannino, acido tartarico, melassa e ghiande. Il “cocktail”, che veniva fermentato col lievito di pane, cercava di rimediare a un problema molto sentito che rischiava di provocare anche gravi tensioni sociali.

Me-t tolt per la serva ed Zoboli?
Si risponde in questo modo a che propone affari che prevedono grande ingenuità per essere accettati. Zoboli, infatti, era un vecchio avaro che aveva assunto al suo servizio una donna molto semplice col patto che tutte le sere, al termine del lavoro, lei giocasse a carte con lui, mettendo sempre in palio la paga ricevuta. Zoboli vinceva immancabilmente e così la serva lavorava per niente.

Fèr la figura éd Rebucci.
Fare la figura di Rebucci. L’espressione era molto usata in passato come sinonimo di “brutta figura, gaffe o magra”. Si narra che a un tale Rebucci, dignitario del duca e uomo alquanto presuntuoso, capitavano spesso spiacevoli contrattempi, causa di brutte figure che suscitavano l’ilarità generale. Pare che una sera, a corte, credendo di non essere visto, si fosse infilato nelle tasche dei pantaloni una grande quantità di cioccolatini di cui era molto ghiotto. Il duca, che era seduto davanti al camino, se ne avvide e chiamò vicino a sè il Rebucci, iniziando con lui una lunga conversazione su argomenti di nessuna importanza. Rebucci, per non arrecare offesa al duca, non poteva allontanarsi. Mentre questi parlava, il calore del fuoco sciolse i cioccolatini nelle tasche del dignitario i cui bianchi pantaloni cominciarono a colorarsi di marrone all’altezza delle cosce. Il personaggio ducale, accortosi che tutti lo guardavano sogghignando, poiché a causa del colore assunto dai pantaloni pensavano che gli fosse capitata ben altro incidente, si congedò di colpo dal duca, dicendo sottovoce: “Perdonate, maestà, se vado via, ma mi è accaduta una disgrazia!”

Al pèr l’umèin dal lóster. 
Sembra l’omino del lucido. In passato, il lucido per scarpe “Brill” era publicizzato dall’immagine di un omino, elegantemente vestito, che si rimirava le scarpe lucidissime. Il detto è tuttora usato per indicare le persone di bassa statura, che vestono in modo ricercato.

A óff.
A ufo, a scrocco, a sbafo, senza pagare. Il detto pare risalga ai tempi in cui venivano innalzate le grandi cattedrali, quando era concessa l’esenzione dal dazio ai materiali occorrenti per la loro costruzione. Carri e barche su cui viaggiavano questi materiali portavano ben visibile la scritta A.U.F. (“Ad Usum Fabricae”, “Per il cantiere”). È facile capire come quell’A.U.F., in bocca al popolo, sia diventato rapidamente sinonimo di scrocco, di sbafo, di qualcosa ottenuta senza pagare. Secondo il Tommaseo, invece, l’espressione risale a “Ex ufficio”, abbreviato in “ex ufo”, scritta che, un tempo, appariva sulle lettere dello Stato, le quali viaggiavano senza affrancatura.

giovedì 23 gennaio 2014

TORTELLONI CON LE BIETOLE



I tortelloni di bietole sono la versione ultra magra dei classici tortelloni di ricotta e bietole che si preparano a Modena. Questa è la ricetta di mia nonna Ines, che amava preparare i tortelloni per la famiglia, ma non aveva i soldi per acquistare la ricotta dal casaro. Al posto della ricotta, quindi, metteva il pane grattugiato cotto con il latte, ingredienti che erano sempre presenti nella sua cucina. E anche quando ha potuto acquistare ingredienti più ricchi, ha continuato a preparare questa pasta ripiena così, "alla povera".



Ingredienti
500 gr. di farina
5 uova
200 gr. di bietole cotte
250 gr. di latte
100 gr. di parmigiano reggiano grattugiato
prezzemolo tritato q.b.

pane grattugiato q.b.
sale q.b.
noce moscata q.b.


Preparazione
Preparate il pesto il giorno prima. Mettete le bietole precedentemente lessate in un po' di latte, regolate di sale e lasciatele cuocere per circa mezz'ora, fino a quando tenderanno a spappolarsi, poi aggiungete il prezzemolo tritato.
Fate bollire il latte rimasto e versatevi il pane grattugiato fino a formare una crema morbida, salate leggermente e aggiungete le bietole mescolando bene. Lasciate raffreddare e aggiungete il parmigiano reggiano grattugiato e un pizzico di noce moscata. Mescolate per bene e mettete in frigorifero.
Preparate la sfoglia. Impastate la farina con le uova fino a ottenere un impasto liscio ed elastico. Lasciatelo riposare avvolto nella pellicola trasparente per circa mezz'ora. Con l'aiuto della nonna papera, tirate la sfoglia e ricavate con la rotella tagliapasta dei quadrati di circa 5 cm. di lato. Mettete una noce di pesto al centro e chiudete prima a triangolo e poi, unendo i due angoli e facendoli passare intorno al medio e l'indice, date la forma tipica del tortellino. Disponete i tortelli su un vassoio spolverato di semola. Portateli a bollore in abbondante acqua salata, lessateli e scolateli, aiutandovi con un mestolo forato.
Questi tortelloni possono essere conditi come più vi piace, con burro e salvia e una spolverata di parmigiano reggiano, con un leggero sugo al pomodoro, oppure con un buon ragù alla bolognese. Il ripieno è così semplice che potete condirli con qualsiasi sugo, perchè ci sta bene tutto. Conditeli, quindi, con il sugo che preferite e serviteli in tavola caldissimi.

Micaela Ferri

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